Jhumpa Lahiri
IN ALTRE PAROLE
TRAMA
Questa è la storia di un colpo di fulmine, di un lungo corteggiamento, di una passione profonda: quella di una scrittrice per una lingua straniera. Jhumpa Lahiri è una giovane neolaureata quando visita per la prima volta Firenze; appena sente parlare l’italiano capisce che le è stranamente familiare, che le è necessario e deve apprenderlo. Non sa spiegarsi il perché di un simile, repentino bisogno, ma sa che farà di tutto per soddisfarlo. Dapprima prova a studiare l’italiano nella sua città, New York, con una serie di insegnanti private, ma non basta. Anche le brevi visite successive, a Mantova, Milano, Venezia, non la appagano: vuole immergersi completamente nella realtà della nuova lingua. Si trasferisce a Roma, con tutta la famiglia. E lì comincia la vera avventura, fatta di slanci, entusiasmo e insieme di difficoltà ed estraniamento. In altre parole è il primo libro che nasce direttamente in italiano da un’autrice di madrelingua bengalese che ha sempre parlato e scritto in inglese. È la testimonianza di un tenace percorso di scoperta e di apprendimento e di un obiettivo, raggiunto, di potenza e fluidità espressiva, ancora più preziosa perché conserva tra le righe l’eco affascinante di una distanza, quella che sempre ci separa dall’oggetto d’amore: la distanza impercettibile e infinita del desiderio.
RECENSIONE
Le vicende personali della vita di Jhumpa Lahiri colpiscono per la complessità di esperienze linguistiche e culturali: nata a Londra da genitori bengalesi e cresciuta negli Stati Uniti, ha vissuto a New York dove ha studiato, specializzandosi, Inglese, Scrittura creativa e Letteratura comparata presso la Boston University. Conseguito il dottorato in Studi rinascimentali, inizia a insegnare scrittura creativa presso diverse università americane di prestigio. Attualmente insegna al Barnard College della Columbia University ma ha fatto ormai dal 2012 di Roma la sua città di adozione tanto da vivere tra l’Italia e New York e da considerare l’italiano una delle sue lingue. Premio Pulitzer nel 2000 per L’interprete dei malanni, insignita da Obama nel 2015 della National Humanties Medal, Lahiri si appassiona alla lingua e alla cultura italiana affermando che l’italiano è la lingua “della creatività, dei sogni, la chiave che apre la porta”. La lingua che con la sua alternanza di tempi verbali al passato fa concludere a Lahiri: “mi identifico con l’imperfetto perché un senso d’imperfezione ha segnato la mia vita. Sto provando da sempre a migliorarmi, a correggermi, perché mi sono sempre sentita una persona difettosa”.
In altre parole (2015), una selezione dei racconti scritti per la prima volta in lingua italiana per la rivista Internazionale, si configura come un saggio fortemente autobiografico. “Ormai da dieci anni scrivo in italiano. Un italiano in cui tutt’ora mi sento sia a casa, radicata, sia fuori luogo. C’è questa doppia realtà che secondo me mi fa molto bene”. La serie di racconti (o di pagine di diario?) che si susseguono pagina dopo pagina, scardinando così l’impostazione che tradizionalmente ci si aspetterebbe dalla scrittura saggistica, ci guida lungo un percorso in cui vita, letteratura, lingua e traduzione si intrecciano senza appesantire la prosa e tanto da rendere la lettura accessibile non solo a coloro che di lingue, culture e loro rispettive mediazioni si occupano per mestiere (dai linguisti ai traduttori, dagli insegnanti agli scrittori) ma anche ai ‘non addetti’ che con facilità riconosceranno, simpatizzando, talvolta solidarizzando, elementi e tracce di vissuto personale, del rapporto con la lingua nativa e con le lingue seconde che inevitabilmente si incontrano lungo il proprio percorso di vita professionale e non, al di là della relazione più o meno costante e duratura che con esse si può stabilire. Un rapporto controverso, in cui il labile confine tra lingua e cultura tende a non essere più distinguibile.
In altre parole è un diario sofferto, affascinante, incalzante, nel quale Jhumpa Lahiri si mette a nudo e trova nella scrittura, ricca di metafore, la possibilità di scoprire nuove dimensioni della sua multiforme identità, tra passato, con i suoi ricordi infantili, a volte onirici, sensi di colpa e timori irrisolti; e presente con i suoi desideri e aspirazioni più forti, da parlante e da traduttrice. Per i lettori e le lettrici italiani, In altre parole è anche uno specchio in cui riconoscersi e riapprezzare la lingua italiana di cui Lahiri elogia non solo la bellezza e l’unicità, ma anche la capacità espressiva. L’italiano è qui l’oggetto d’amore raggiunto ma allo stesso tempo lo si riconosce come un irraggiungibile possesso, nel senso di una perdurante e ineludibile impossibilità di conoscere e usare la lingua farebbe un native speaker. Il nodo che si presenta costantemente nel libro è, infatti, la tensione – comune a molti – fra il desiderio fortissimo di apprendere una lingua, in questo caso l’amatissimo italiano, e la frustrante consapevolezza di non poterlo parlare e scrivere come un madrelingua farebbe.
Autrice: Jhumpa Lahiri
Editore: Guanda
Pagine: 144
Anno di prima pubblicazione: 2015
Genere: Saggistica narrativa
Età di lettura: 18+
CITAZIONI
“Mi vergognavo di parlare bengalese e al tempo stesso mi vergognavo di provare vergogna. Non era possibile parlare in inglese senza avvertire un distacco dai miei genitori, senza avvertire una sensazione inquietante di separazione.”
“Dava fastidio anche a me se i miei pronunciavano una parola in inglese in modo sbagliato. Li correggevo, impertinente. Non volevo che fossero vulnerabili. Non mi piaceva il mio vantaggio, il loro svantaggio. Avrei voluto che parlassero l’inglese come me.
Ho dovuto giostrarmi tra queste due lingue finché, a circa venticinque anni, non ho scoperto l’italiano.”
“In America, quando ero giovane, i miei genitori mi parevano sempre in lutto per qualcosa. Ora capisco: doveva essere la lingua. Quarant’anni fa non era facile, per loro, sentire le famiglie al telefono. Aspettavano la posta. Non vedevano l’ora che arrivasse una lettera da Calcutta, scritta in bengalese. La leggevano cento volte, la conservavano. Quelle lettere rievocavano la loro lingua e rendevano presente una vita scomparsa. Quando la vita con cui ci si identifica è lontana, si fa di tutto per tenerla viva. Perché le parole riportano tutto: il luogo, la gente, la vita, le strade, la luce, il cielo, i fiori, i rumori. Quando si vive senza la propria lingua ci si sente senza peso, e allo stesso tempo, sovraccarichi.”
“Devo togliere la parola scorretta o sbagliata e cercarne un’altra. Non posso difendere la mia scelta: non si può contraddire un madrelingua. Devo accettare che in italiano sono parzialmente sorda e cieca, per cui temo di essere una scrittrice spuria.”